mercoledì 27 aprile 2011

Ermanno Olmi dal barbiere

Se c'è una cosa che mi da noia è aspettare. Ancora peggio aspettare dal barbiere. Molto peggio: da un barbiere che non si conosce. Allora ho comprato la Repubblica ed ho letto l'interessante intervista ad Ermanno Olmi, intitolata "Noi Sognavamo". Parla del sogno infranto di una generazione, i nostri anziani, che dalla costituzione si aspettavano un sogno, non un incubo incarnato nel dio denaro.

Ermanno Olmi aveva già scritto sulla Repubblica, una cosa del genere:

ERMANNO OLMI

Caro direttore, quando è uscito il mio ultimo film Centochiodi ho annunciato che col cinema narrativo avevo chiuso: ma non è perché il cinema italiano - e non solo italiano - sia in crisi. È tutta la società che in questo momento è in crisi, e non solo quella italiana. Stiamo attraversando un periodo di grandi trasformazioni necessarie per affacciarci a nuove soglie del futuro.

Trasformazioni che non abbiamo del tutto metabolizzato. Uso questo termine, anche se un po' scaduto, ma che mi torna in mente ora per indicare quei particolari momenti della storia in cui necessari e inevitabili cambiamenti creano necessari e inevitabili condizioni di crisi. È un po' come succede con il corpo umano, quando da bambini si diventa adolescenti e il corpo si carica di turbolenze e ancora non si ha la consapevolezza né di essere bambini né di essere adulti. Questa è oggi la nostra società. Così tutte le società “cosiddette” avanzate.

Pensiamo di essere più grandi ma non siamo ancora davvero adulti. Ed è questo che ci mostra il cinema: la condizione della nostra realtà in uno stato piuttosto confusionale e disorientata. E anche il cinema è parte di questa realtà. Ma è da quando ho cominciato la mia avventura nel cinema - e sono oramai più di cinquant'anni - che sento lamenti di crisi del cinema italiano dopo la gloriosa stagione de neorealismo e dei suoi grandi padri. È vero: quei maestri segnarono la scena mondiale del cinema italiano, quello fu il momento più alto del nostro cinema, ma perché? Proprio perché c'erano stati cinque anni di guerra, appunto.

Tragedie e sofferenze comuni che avevano creato un sentimento comune. Anni che furono una scuola poderosa, una scuola che ci costringeva a cercare valori essenziali. Primo fra tutti quello della vita. Eravamo individui in mezzo ad altri individui che avevano fame di pane e civiltà. Ma a quel tempo, tutto era coinciso con la rinascita dalle macerie, con la ricostruzione, con una speranza nuova, col sogno di un mondo più umano, di bella convivenza. È durato poco.

Già nei primi anni Cinquanta si faceva avanti la crisi del contrappasso determinata dal boom economico - così si chiamava - e che alla fine durò un istante. Come sempre, lo slancio della ricchezza cancella le tensioni morale e, per quanto riguarda il grande schermo, spinge anche il cinema verso la commedia - giustamente per carità – e poi, pur con capolavori di grande maestria, verso una spensieratezza che non vuole saperne di nuovi segnali di insofferenze e crisi mondiali. Le guerre “lontane” non ci riguardano.

Ma ecco la morte di Kennedy, il Sessantotto, la Guerra Fredda cova tra le grandi Potenze. Sono cominciati in quegli anni i grandi cambiamenti del mondo e da allora a oggi tutte le nostre società stanno vivendo queste fisiologiche trasformazioni. Che possono anche produrre esiti devastanti, come fu da noi il terrorismo di casa, o come è oggi il terrorismo internazionale.

Dunque trovo che quello che hanno scritto Galli della Loggia sul Corriere della sera o Lizzani e Bellocchio su Repubblica ci sollecita a una giusta considerazione sul cinema. La segnalazione di una crisi – che si intende di inadeguatezza – dei film italiani nei confronti della realtà in cui viviamo. Giusto. Tuttavia la medesima domanda dobbiamo porla alla letteratura, alle arti, alla politica dei nostri governi e all'economia del denaro. Non è forse in crisi questa economia? Quella italiana e non solo? Abbiamo forse un disegno economico che rappresenta l'anelito ideale di questo nostro paese?

Via! I dati che ci fanno vedere sono fasulli. Ma non perché non sanno fare i conti coi numeri. Non sanno fare i conti coi “valori”. Non hanno ancora capito – o non vogliono capire – quanto vale una zolla di terra e un bicchiere di buona acqua. Viviamo da ricchi una condizione di miseria di beni naturali. Ma appena il baraccone delle ambiguità comincerà a scricchiolare, saranno, come si dice a Roma, ... amari.

Il cinema non è un dopolavoro idilliaco dove nel tempo libero si celebrano le smanie artistiche di quattro giovanotti – come eravamo noi del tempo passato. Il cinema di ieri come quello di oggi, vive il sentimento della realtà. Ecco perché il senso di crisi. Non c'entra niente dire che non ci sono più buoni autori. Perché non è vero. Anzi i germogli della nuova generazione ci sono, eccome.

Ho visto il film bellissimo di Giorgio Diritti, Il vento fa il suo giro, e questa è una delle tante conferme. Lo vada a vedere Galli della Loggia: mi ringrazierà. E diciamo anche che quest'anno alla Mostra di Venezia ci sono tre giovani italiani eccellenti che faranno sicuramente onore al nostro cinema, all'arte, al dovere civico.

Per questo, con simpatia e con calore, ribalto la domanda a Repubblica e al Corriere. Forse i giornali italiani stanno davvero rappresentando la realtà italiana? Sono all'altezza del compito che gli compete? O sono vincolati dalla pubblicità e la servono devotamente? Non è anche questo un segno di crisi?

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